Teatro in viaggio Teatro - 2012

Locandina
dall’omonimo libro di Pietro Floridia (ed. Nuova S1)
video di Luana Pavani
responsabile tecnico: Gabriele Silva
di e con Pietro Floridia
Lo spettacolo
Le note
Lo spettacolo di narrazione Teatro in viaggio nasce da un vuoto, da una mancanza. Quella di Zine, ragazzo marocchino a cui sto insegnando a recitare, che mi dice: “come immigrati noi siamo un quasi, ci manca sempre qualcosa”. E a me viene il desiderio di sapere che cosa manca a ragazzi come lui, che cosa hanno lasciato nel luogo da cui sono dovuti partire. Ma non è soltanto questo ciò che mi fa mettere in viaggio. E’ anche che nel suo non esserci mai completamente, nel suo sentirsi straniero, io specchio me stesso e la mia condizione di artista. Credo che anche l’artista, sovente, si confronti con una mancanza. Credo che i mondi che crea, spesso, altro non siano che i tentativi di riempire un vuoto. Credo anche che rispetto alla società in cui vive, l’artista, se non lo è già, debba farsi straniero: soltanto restando un po’ fuori, può guardare il mondo dentro cui vive con lo sguardo straniato che talvolta consente di vedere e mostrare quanto nessun’altro vede. Il viaggio serve a questo, e l’arte è un altro modo di viaggiare. I paesi che abbiamo attraversato, io e il Gabo, a bordo di Land Rover tutto scassato, sono stati Marocco, Sahara Occidentale, Mauritania e Senegal. Facevamo laboratori teatrali con le mamme, i fratelli, le fidanzate dei ragazzi emigrati, come Zine, a Bologna e che fanno parte della compagnia multiculturale del Teatro dell’Argine. Chiedevamo loro di scrivere storie; ci piaceva l’idea di un testo scritto a più voci, alcune delle quali in Italia, altre rimaste nei paesi di origine; ci piaceva l’idea che il testo teatrale che stava nascendo fosse una specie di “casa a mezz’aria” in cui persone, condannate a volte per tanti anni a restare lontane, potessero per un po’ coabitare, dialogare, fare incontrare all’interno di una storia i personaggi che man mano creavano. Ci piaceva pensare il nostro fare teatro e il nostro viaggio come una specie di ponte. E’ così che è nato il testo dello spettacolo Teatro in viaggio, ascoltando le persone raccontare la propria storia: così abbiamo conosciuto Issam, chitarrista bambino fuggito da Tangeri che ogni notte, da una baracca fuori Barcellona, continuava a parlare alla sua chitarra rimasta in Marocco, oppure Said che per amore ha fatto migliaia di chilometri a piedi, o la mamma di Mustafà che quando sentiva la mancanza del figlio guardava in tv un vecchio dvd in cui il ragazzo era in una squallida sala da boxe della banlieue parigina a dare e prendere centinaia di pugni in faccia... Mescolate a queste storie, ci sono poi le divertenti avventure di tre viaggiatori atipici, io, regista sempre con il taccuino in mano, il Gabo, scenografo pazzoide misto tra un guerriero maori e un black block, e il Lando, una specie di carcassa viaggiante a forma di fuoristrada. E ci sono i nostri spaesamenti, il nostro viaggio all’interno di noi stessi, perché questo è il grande potere del viaggio: facendoti perdere i punti di riferimento della vita quotidiana, i ritmi, le abitudini, gli spazi noti, rimette in movimento l’intera materia interiore, la rimette in cammino. E così, più ci accampavamo sui crinali delle montagne dell’Atlante o sul bordo delle scogliere in Mauritania, o tra le dune del deserto del Sahara, più dentro di me riaffioravano i ricordi e le paure e i sogni di quando ero bambino. Perciò dico che quello è stato più che un viaggio nello spazio, un viaggio nel tempo, una specie di risalita fino all’origine, un piccolo villaggio del Senegal, Diol Kadd, una sorta di ombelico in cui il rapporto con gli antenati è così forte da dare la sensazione di appartenere ad un tempo ben più vasto di quello della vita individuale, un tempo non lineare, ma fatto di ritorni, come quello delle stagioni, del fiorire e del cadere dei frutti, un tempo circolare di cui i giganteschi baobab che ombreggiano la savana sono silenziosi, millenari sacerdoti.
Pietro Floridia
Teatro e viaggio
Tempo addietro, durante un laboratorio con rifugiati politici, ne ho conosciuto uno, Syed, pakistano, che, a differenza di altri suoi connazionali, ogni volta che proponevo un esercizio, senza alcuna timidezza, si buttava nel farlo. E lo faceva, perfettamente, sia con il corpo che con le parole. Poco lo inibiva il suo italiano incerto. Alla fine del laboratorio gli ho detto: Syed, sei davvero bravo, metticela tutta per continuare a partecipare a questo laboratorio, ne vale la pena. Al che lui mi fa: sai come ho imparato a recitare? La figlia di mia sorella, una bambina, si ammalò di una malattia del sangue. Così ci dissero che doveva fare frequenti trasfusioni, se no rischiava di morire. Ma noi eravamo molto poveri. Non potevamo permetterci gli ospedali. Così, per non vederla morire, io incominciai a tentare di convincere le persone a darmi un po’ del loro sangue. Dovevo essere molto bravo, dovevo farli commuovere, se no non mi davano niente. Allora raccontavo della bambina, di come stava prima della malattia, di come stava adesso, poi però dovevo anche renderli sicuri che non c’erano rischi per la loro salute se mi davano un po’ del loro sangue. Raccontavo, certe volte dicevo la verità, certe volte inventavo dettagli commoventi, poi recitavo, gli facevo vedere come giocava mia nipote quando stava bene, e come sua madre, mia sorella, era felice… A seconda di come raccontavo, loro venivano o non venivano in ospedale, loro si aprivano o non si aprivano la camicia e si lasciavano togliere il sangue. Per questo mi interessa il teatro.
Un ragazzo recita per convincere chi ha di fronte a dare il sangue per sua sorella malata. Sia come storia vera che anche come metafora trovo questo racconto molto forte. Mi fa pensare a Sherazade, solo che al posto di salvare la sua di vita, questo ragazzo cerca di salvare quella della nipote. È anche per questo che faccio teatro con i rifugiati. Perché l’espressione “questione di vita o di morte” non è più un modo di dire. E allora avviene che per uno come me, che, all’interno del sistema teatrale del sistema Italia del sistema mondo occidentale, non è più capace di trovare un senso al proprio agire, diviene vitale cercare di abbeverarsi a queste fonti, almeno indirettamente condividere battaglie in cui “è questione di vita o di morte”. Qualche mese fa, Judith, un’attrice congolese che ora fa parte della compagnia dei rifugiati politici, mi ha detto che stava fondando un’associazione con l’obiettivo di fare sapere ad un Occidente del tutto disinformato e disinteressato quanto di tremendo stava continuando a succedere nel Congo. Mi ha chiesto se, usando la mia esperienza di regista e drammaturgo, potevo aiutarli a rendere più efficace la loro attività di sensibilizzazione. Sono andato alla loro prima riunione e lì ho conosciuto John. John che in quella riunione mi disse di avere deciso di andare a piedi da Reggio Emilia a Bruxelles. Perché l’unico modo perché le sue parole avessero un peso, perché le sue parole smettessero di essere “il brusio dell’ennesimo che si lamenta” era sacrificare il suo corpo, caricare i suoi discorsi di 40, 50 chilometri fatti a piedi ogni giorno, per due mesi.
Di nuovo questione di vita o di morte, di nuovo un’istanza che va ben oltre l’individualità del singolo, di nuovo l’avvalersi di un gesto, almeno in senso lato, “teatrale”: una performance lunga milleseicento chilometri per rendere la propria parola pesante, significativa. Ho deciso di partire con lui, di seguirlo, di mescolare alle sue parole su giustizia, memoria, violenza, colonialismo, sfruttamento con le parole di Eschilo, di Shakespeare, di Conrad, di Levi, di Pasolini, di Aimé Cesaire, di Kleist. E ho scoperto che questo intreccio tra il discorso politico di denuncia fatto da John e la parola teatrale e poetica funzionava, era molto efficace, al punto che, il giorno dopo le performances, molte persone che vi avevano assistito ripartivano con noi per fare insieme alcuni chilometri di cammino.
Unirmi al viaggio di John, ragionare sul perché John abbia deciso di partire, sul perché io abbia deciso di seguirlo, mi è stato fondamentale per capire un po’ meglio quale è il tipo di ipotesi che sottostà al rapporto tra teatro e viaggio.
Perché John parte? John parte nella speranza di potere trovare nel luogo verso cui si dirige, nel nostro caso Bruxelles, qualcosa con cui tornare nel suo paese, il Congo, che lo possa aiutare, nella fattispecie una risoluzione della comunità europea che blocchi i legami tra il governo ruandese e un movimento di ribelli che insanguina l’est del Congo. Ovverosia, John non viaggia verso una terra promessa come Abramo, né viaggia per ritornare a casa come Ulisse. Lui va alla ricerca di un qualcosa con cui poter risanare il suo paese malato. Questo schema corrisponde a quello mitico della ricerca del Graal, dove il regno del Re Pescatore è inaridito dalla siccità, corrotto dalla malattia, appestato dalla ferita misteriosa e inguaribile del suo Re; un regno che, per citare una delle più famose riscritture del mito, quella di Terra desolata di Eliot, diviene per il poeta metafora del mondo moderno, dominato dal caos, dalla anarchia e dalla degradazione dei valori, dalla futilità del quotidiano.
Ecco, fatte tutte le debite proporzioni, il mio partire, il mio andare a fare teatro in Palestina, in Nicaragua, in Bolivia, in Libano, in Brasile, e, così come raccontato in Teatro in viaggio in Marocco o in Senegal, risponde a questo stesso schema. Come se il teatro fosse stato un tempo uno strumento magico che poteva contribuire al risanamento della comunità, ed oggi, invece, abbia perduto questo suo potere magico, abbia perduto la capacità di fecondare la comunità, di generare un risveglio e un mutamento in chi vi si accosta. Così nel tentativo di ricaricarlo di senso, di intuire quali modifiche il rituale teatrale debba e possa assumere per dare vita nuovamente ad un’esperienza significativa, io sento necessario partire, andare ad agire e a cercare quanto succede in contesti altri, radicalmente diversi dal nostro, contesti in cui anche la cultura, spesso, in un modo o in un altro, è questione di vita o di morte.
Tale partire per quello che mi riguarda è e deve essere in costante dialogo con l’attività fatta in Italia con i rifugiati politici. Non solo perché come è avvenuto in Teatro in viaggio le mete del viaggio sono i luoghi da cui loro sono partiti, ma anche perché una volta tornato, divengono loro l’agente fondamentale di cambiamento. Sempre per rimanere dentro lo schema mitico del Graal chiamo in causa l’interpretazione che di certi miti viene data nel “Ramo d’oro” di Frazer: perché all’inverno succeda la primavera, perché la terra sia nuovamente gravida di messi e non più desolata, il re del bosco deve essere sostituito da un usurpatore violento “probabilmente uno schiavo disperato e fuggiasco, pieno di nuovo vigore in grado di rendere di nuovo fertile la dea”. Ebbene, per quanto mi riguarda quello “schiavo disperato e fuggiasco in grado di rendere nuovamente fertile la terra”, sono i rifugiati politici che tante volte non hanno che la loro storia per giocarsela nel nostro mondo, storie che però nelle strutture hanno il vigore di quelle raccontate dalle Troiane, da Medea, da Oreste, da Elettra, da Lear, da Prospero, da Calibano, da Otello, da Peer Gnyt, da Candido, da Giobbe, da Michele Kolahass… Storie ed esperienze che se messe in collegamento, se trasformate in anelli di una catena, di un’alleanza con le esperienze di quegli altri stranieri che sono gli artisti, possono forse conferire un nuovo vigore al teatro, farlo di nuovo ridiventare necessario alla comunità che lo circonda, farlo ridiventare luogo in cui si elabora un pensiero di possibilità altre. Avendo sempre in mente la domanda chiave del Graal: “A chi serve?”. Questa la formula per impossessarsi del calice. Sono le persone che ci circondano quelle di cui dobbiamo intuire quale è la sete e la fame profonda. Se la gente non ha fame, allora, anche se il buffet è ricco (e da noi è fin troppo ricco) si spiluzzicherà, si assaggerà in qua e in là, e anche se ci fossero tra le mille pietanze, cose buone e raffinate, dentro questo contesto di non-fame, di spiluzzicamento, passeranno quasi inosservate: due bocconi dopo, due pietanze dopo, saranno nuovamente dimenticate…
Pietro Floridia
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Il video
L'autore
Negli anni della formazione Pietro Floridia ha modo di lavorare con B. Jerkovic, S. Cardone, V. Mikheenko, S. Farrell. Nel giugno 1993 si diploma presso la Scuola di Teatro Colli - Scuola di Teatro dell'Emilia Romagna e a settembre dello stesso anno fonda, insieme a un nutrito gruppo di artisti di teatro, la Compagnia del Teatro dell'Argine, della quale è presidente fin dalla fondazione e nella quale lavora tuttora in qualità di regista, drammaturgo e insegnante. Dal 1998, è direttore artistico, insieme a Nicola Bonazzi e Andrea Paolucci, dell'ITC Teatro Comunale di San Lazzaro. Nel 1997 dà vita, insieme ad un gruppo di allievi, al gruppo Le Saracinesche/OTE (Ozzano Teatro Ensemble), una costola della compagnia maggiore. Dirige, tra gli altri, gli spettacoli Che diremo stanotte all'amico che dorme?, dalle opere di Cesare Pavese (2001, ospite al Festival delle Colline Torinesi), I Dublinesi da J. Joyce (1999), Sogno di una notte di mezza estate di W. Shakespeare (2000), La stagione delle piogge, del drammaturgo ghanese Nii Oma Hunter, Buchi nel cuore, scritto con Angelica Zanardi. Scrive e dirige gli spettacoli Cronache da un mondo perfetto (2002), Il balcone di Giulietta (2003), Tiergartenstrasse 4, Un giardino per Ofelia (2004, pubblicato dalle edizioni Filema), Il sapore dell'acqua (2005), Ecuba ex regina (2007). Nel 2008 fonda il festival interculturale La scena dell’incontro di cui assume la direzione artistica. Nel 2009 crea un progetto di gemellaggio con Al Harah Theater di Beit Jala (Palestina) per cui dirige lo spettacolo La metamorfosi da Franz Kafka. Lavora al progetto Los Quinchos presso Managua in Nicaragua, dalla cui esperienza nasce lo spettacolo La strada di Pacha. Nel 2010 con il progetto Del diluvio e di altre sopravvivenze scrive e dirige un laboratorio teatrale nel carcere minorile di Santa Cruz della Sierra in Bolivia. Nel 2011 con il progetto Teatro in viaggio dirige laboratori e spettacoli in Marocco, Mauritania, Senegal. Pubblica il libro Teatro in viaggio - Lungo la rotta dei migranti che raccoglie i blog scritti durante 3 mesi di viaggio in Africa, dirige lo spettacolo La Stagione delle piogge che partecipa ad alcuni dei più importanti festival italiani, collabora con il festival Les Escalier a Beirut Libano. Nel 2012 realizza la prima esibizione personale della istallazione/mostra Report dalla città fragile presso il Teatro Franco Parenti di Milano, dirige il progetto Il Castello presso il Grupo XIX a San Paulo Brasile che vince il secondo premio come miglior spettacolo internazionale del 2012, con il progetto “Compagnia dei Rifugiati Politici” vince il premio Camillo Grandi, con il progetto Impronte d’Europa accompagna per due mesi John Mpaliza in un viaggio a piedi di 1.600 chilometri in cui scrive i reportages per il Corriere della sera.